IL DILUVIO A VOLTRI
Dal libro di Carlo Dall'Orto:
IL DILUVIO A VOLTRI - ediz. Grafica L.P. di Risso e Binello - Genova 1971
Cronaca dell'alluvione del 7 ottobre 1970
Questa è una particolareggiata cronaca del luttuoso avvenimento che il 7 ottobre 1970 portò purtroppo il nome di Voltri sulla bocca di tutta Italia e all'estero. L'abbiamo scritta perchè ne resti il ricordo per i nostri posteri e, nello stesso tempo, per onorare le 14 vittime del grave disastro ... ... Nell'esporre i fatti ci siamo scrupolosamente attenuti a quanto ci è stato riferito. Può essere però che nel nostro racconto ci siano delle inesattezze. Ciò è dovuto al fatto che, sullo stesso episodio, ci sono state date a volte diverse versioni. Noi abbiamo fatto nostra quella che ci sembrava più veritiera ... (Carlo Dall'Orto)
Il mattino di mercoledi 7 ottobre il cielo era coperto. "Finalmente!" sospirava la gente "Avremo un bel temporale!". Alle 9 le prime gocce, poi l'acquazzone. Una mezz'oretta più tardi il tempo si ristabilì e il sole fece a tratti capolino dalle nubi. Non piovve più per tutta la mattina e al pomeriggio ognuno tornò al suo lavoro. Sembrava un giorno come gli altri. Solo il cielo si era fatto ancora buio, anzi cupo. I letti del Leira e del Cerusa erano quasi asciutti. Nessuno poteva immaginare che cosa sarebbe accaduto di li a poco. Verso le 18.40 il cielo prese ad essere solcato da grossi nembi, spinti verso monte da un fastidioso vento di libeccio. All'orizzonte fu un lampeggiare continuo. I lampi, sempre più vicini, si susseguivano con un ritmo impressionante. In breve i lampi furono vicinissimi, i tuoni assordanti. Una cosa mai vista. "Questa burrasca farà piangere qualcuno", commentò il barista del circolo nautico, signor Mario Cademartori.
Alle 18.45 cominciarono le prime gocce. Poi, improvvisamente, un acquazzone. Un acquazzone? No. Il diluvio. E piovve, piovve, piovve, in continuazione, per più di tre ore: a catinelle, a secchi, a barili. La visibilità era zero. Le donne nelle case pregavano. Gli uomini, sorpresi nei bar, nei negozi, negli uffici o per strada e rifugiatisi in un portone, guardavano attoniti quella pioggia che cadeva, non più a gocce, ma a rivoli. Non erano tranquilli. Ad un tratto un lampo, un boato, e nel rione di Sant'Ambrogio la luce si spense. Ma ecco le prime telefonate da Acquasanta: "Il torrente Baiarda è in piena! Una piena enorme! Fuggite!". Fuggire? Ma perchè? Non sarebbe stata la prima volta che il torrente Leira usciva dagli argini!
I bottegai cominciarono a mettere le "luscée", quelle caratteristiche saracinesche che, alte anche due metri, già tante volte avevano impedito all'acqua del Leira in piena di allagare i negozi.
Intanto continuava a diluviare. Forse ci fu anche una enorme tromba marina. Lo confermerebbero i pesci e i gamberi di mare, caduti, come affermarono molti testimoni, in più punti della alta Valle Stura; e le conchiglie e le tartarughe di mare raccolte nella zona di Fado. In breve, dai fianchi di montagne e colline, dai pendii, cominciarono a scendere verso il fondo valle ruscelli, ruscelletti, torrenti, fiumiciattoli che prima non erano mai esistiti. Venivano giù con impeto, disordinatamente, scavando sradicando, rompendo e portandosi dietro limo, ciottoli, massi, rocce, cespugli e piante di ogni dimensione. Il Baiarda, il Ceresolo e il Gorsexio entrarono in piena.
Alle 19.47, avuto il via dal capostazione Giovanni Ferraris, l'elettrotreno 540, partito da Brignole carico di passeggeri per Limone, era appena partito dalla stazione di Voltri quando, giunto all'imbocco della galleria Mameli, trovò il semaforo sul rosso. Con rapida manovra il macchinista azionò la rapida quando improvvisamente dalle due gallerie Mameli, poste fianco a fianco, vide uscire due torrenti di acqua impetuosa: l'acqua era piena di relitti di ogni genere, tra cui tronchi, automobili ed enormi bobine di carta, e stava per investire il treno.
Allora allentò i freni per retrocedere, ma il convoglio si mosse da solo. Tra i passeggeri, accortisi di quanto stava accadendo, nacque un certo panico e ci volle del bello e del buono, da parte del personale viaggiante, per calmarli. Unici a non accorgersi di nulla furono due innamorati che, chiusi in uno scompartimento con le tendine abbassate, continuavano indifferenti a tubare, e una ragazza che, sola in un altro scompartimento, continuò a mangiare castagne. Retrocesso fino alla conceria Lauro, il treno si fermò. Il capostazione Luigi Nicolini fece trasbordare i passeggeri su di un altro convoglio fermo nello scalo ferroviario. Solo a notte avanzata, arrivati i vigili del fuoco, ognuno potè far ritorno a casa. Si accertò poi che a far scattare il semaforo sul rosso era stato qualche relitto portato dall'acqua. Se non si fosse verificato questo, o se il treno fosse partito dalla stazione qualche minuto prima, sarebbe forse accaduta una tragedia.
Per il lodevole comportamento di quella sera, il 4 ottobre 1971 a Roma, il capostazione principale Luigi Nicolini, il capostazione di servizio Giovanni Ferraris, il capo gestione Omero Noci, i manovratori Faustino Dapelo e Gino Santiccioli e il deviatore Claudio Stagni ricevettero dalle mani dell'ing. Fienga, direttore generale delle ferrovie, l'ambita ricompensa del ciondolo d'oro, denominato "Fiore della Rotaia".
Sotto l'enorme pressione dell'acqua, fermata da una improvvisata diga, il pilone centrale del viadotto ferroviario di Leira s'inclinò. Conseguentemente le due arcate sovrastanti il torrente si disarticolarono e, mentre quella di levante restava in equilibrio, quella di ponente scivolò nel torrente. L'acqua, avuta via libera, si precipitò furente e distruttrice verso l'abitato. Che ore potevano essere? Difficile dirlo; comunque l'episodio del treno ci fa pensare che si fosse intorno alle 20. A quell'ora la sorte delle 13 vittime accertate del disastro si era già compiuta da un pezzo. La più micidiale delle ondate di piena infatti era stata la prima, a favore della quale aveva giocato il fattore sorpresa. Con questa nuova ondata l'acqua aggiunse distruzioni a distruzioni, giungendo a devastare i negozi: a levante fino alla stazione ferroviaria e, a ponente, fino alla vecchia rotonda del tram di via Camozzini. Nel palazzo Bressanello l'acqua toccò l'altezza di un metro e ottanta; nel vecchio ospedale San Carlo un metro; nella chiesa di Sant'Ambrogio i tre metri e, nel bar Gibò i due metri.
Nel negozio di Marinetta intanto si era già compiuto il più tragico dei destini. Antonio Mantero, aiutato dal genero Francesco Bruzzone, aveva messo alle porte del negozio le saracinesche alte più di due metri. Ma, ad un certo punto, l'acqua cominciò a traboccare dalle due saracinesche e ad allagare il negozio. In quel momento un'enorme massa d'acqua, sfondando saracinesche, porte e vetrine, si riversò all'interno occupando forno e negozio fino al soffitto; in due uomini non ebbero il tempo di fare niente. I corpi dei due uomini furono trovati: quello di Mantero il giorno dopo nel cantiere Costaguta; quello di Bruzzone, dopo due giorni, sotto il mezzo metro di fango che copriva il cortile dietro il forno. In questo stesso cortile fu trovato il corpo di Alessandro Ratto sorpreso dalla piena nel suo bar Silvano accanto al negozio Marinetta. Insieme a lui quella sera c'era anche la moglie Alma Cociancic. Travolta dalle acque mentre cercava di raggiungere il portone, la donna fu recuperata nel fango del cantiere Costaguta, fra yachts e barche rovesciati, sotto un enorme cumulo di detriti.
Chi si fosse trovato a passare quella sera in elicottero nel nostro cielo, avrebbe potuto scambiare Voltri per una piccola Venezia. Una Venezia strana, con calli e canali percorsi da fiumane impetuose, e con le case sommerse. Isolato, in mezzo ad un'acqua tempestosa che l'assaliva da ogni parte, emergeva il palazzo del Comune. Più il tempo passava, più la furia degli elementi cresceva e più si intensificavano le preghiere. Chi non pregava quella sera? Tutti pregavano, anche i più incalliti impenitenti, quelli che non avevano passato da anni la soglia di una chiesa. Mancata la luce e non avendo in casa neanche un cero, don Natale Traversa, parroco di sant'Ambrogio, scese in sacrestia a prendere una candela ed entrò in chiesa. Si accorse allora, alla luce di alcune candele, che dalla porta principale entrava dell'acqua. Andò a vedere e, nera com'era, pensò che si trattasse dell'acqua di una fogna rotta. Risalito in casa ed affacciatosi alla finestra capì che si trattava di ben altro: tutta la via era allagata. Pensò che non c'era da allarmarsi: non era la prima volta che il Leira faceva quegli scherzi. Si sedette perciò alla scrivania. Uno schianto: don Traversa fece un balzo e, afferrata una candela, si precipitò per le scale. A metà dell'ultima rampa si fermò: archivio e sacrestia erano coperti da oltre un metro d'acqua. Ebbe allora la chiara percezione di quanto stava accadendo: un suo amico giornalista gli aveva detto di aver trovato nell'ex archivio di Voltri dei documenti da cui risultava che in passato il Leira aveva avuto diverse piene eccezzionali. Nel 1833 l'acqua del torrente era arrivata al primo piano di alcune case in via Lemerle; il 16 agosto 1862 si era portato via il ponte sull'Aurelia; un'altra piena si ebbe il 18 agosto 1864; il 3 settembre 1873 danneggiò nuovamente il ponte.
Nei giorni che seguirono il disastro, Voltri ebbe una prova di solidarietà così calda, affettuosa e fraterna, quale non ci si sarebbe mai aspettata. Furono giovani e non più giovani: studenti, professionisti, insegnanti, commercianti, operai e contadini che, giunti da ogni parte d'Italia, per giorni e giorni lavorarono a rimuovere detriti, carcasse di automobili, carogne di animali e poi fango, fango, fango, senza nulla chiedere che un panino, un bicchiere d'acqua e un sorriso. "I Voltresi non lo dimenticheranno mai" si leggeva su uno dei tanti manifesti, affissi spontaneamente in quei giorni da gente del popolo sui muri. Fra gli aiuti più immediati vanno sottolineati quelli dei vigili del fuoco e dei carabinieri. Un cenno e un plauso particolari meritano i subacquei voltresi Giovanni Patrone, Arturo Molini, Giacomo Quartino e Bruno Mantero, i quali, pur non avendone l'obbligo, misero a repentaglio la loro vita per salvare quella di tanta gente in pericolo.
Nonostante tanto spiegamento di forze, Voltri si sentiva isolata. Le comunicazioni difficili, se non impossibili, il gran numero di colpiti dal disastro, il sorgere di sempre nuove, imprevedibili situazioni e una troppa accentuata lentezza nel risolverle, diedero ai Voltresi la sensazione di una assoluta carenza di autorità. Per questo un gruppo di volenterosi decise di prendere in mano la situazione. Animatore il commissario d'ufficio cav. Italo Giudici si costituì in municipio un comitato di emergenza. Nello stesso pomeriggio del giorno 8 ottobre il comitato prese le sue prime decisioni: occorrevano viveri e indumenti, e poi badili, carriole e stivaloni. Il giorno 10 ottobre giunse a Voltri il Presidente del Consiglio on. Emilio Colombo, che tra le altre cose decise che: "A Voltri sorgerà un centro operativo, autonomo da Genova, che dovrà provvedere alle necessità più immediate. Il funzionario che dovrà presiederlo è già stato scelto". Dopo qualche giorno, inoltre, tanti giovani voltresi che erano sotto le armi ebbero alcuni giorni di licenza. Trascinandosi troppo a rilento l'opera per riportare alla normalità la vita della cittadina, il giorno 11 novembre Voltri si fermò per una giornata di protesta e lutto. Evidentemente la protesta ebbe il suo effetto perchè da allora i lavori di ricostruzione vennero accelerati.
Un mese dopo, le condizioni del greto del Leira erano tali che c'era seriamente da temere che una nuova piena avrebbe potuto avere conseguenze anche peggiori di quelle lamentate per l'alluvione. Da qui un procedimento penale iniziato dal pretore di Voltri per violazione dell'art. 450 del Codice Penale (Chiunque, con la propria azione od omissione, fa sorgere o persistere il pericolo di una inondazione è punito con la reclusione fino a due anni). Indiziati di reato furono gli ingegneri capi del Genio Civile e dei Lavori Pubblici del comune di Genova.
Concludendo ci piace augurare a Voltri che un disastro simile a quello del 7 ottobre 1970 non abbia più a ripetersi. Che l'arrivo del porto inauguri per la nostra cittadina una nuova era di prosperità e lavoro